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martedì 31 gennaio 2012

L'ARTE DI VINCERE - moneyball

Come si fa a non essere sentimentali con il baseball?




Prendete un Dio e un Semidio della sceneggiatura, una storia di sconfitta e rivincita di quelle con cui ci piace tanto commuoverci, aggiungete un paio di bravi attori che credono in quello che fanno, una spruzzata di regia accademica, mescolate con attenzione e quello che otterrete sarà questo Moneyball (orribilmente tradotto in italiano con L'arte di vincere).

Cominciamo subito col dire che di sicuro questo film non è niente di nuovo. Ripropone stilemi e tematiche tipiche del suo genere di appartenenza (si colloca nell'enorme filone dei film sportivi) senza particolare interesse nel creare qualcosa di innovativo o di stabilire nuovi canoni.
Ciò che invece si preoccupa di fare è di raccontare una storia. E lo fa indubbiamente bene.


Una gran parte del merito per il fatto che questo film funzioni è sicuramente da attribuirsi alla sceneggiatura.
Da due scrittori come Aaron Sorkin e Steven Zaillian non ci si può aspettare niente di meno che un mix riuscitissimo di azioni e dialoghi, ironia e introspezione, intelligenza e sapiente gestione dei personaggi.
Tutte caratteristiche che in Moneyball ritroviamo.
Pur muovendo da un soggetto decisamente poco appassionante (il general manager di una squadra di major league di baseball, avendo grossi problemi di budget, decide di assemblare la sua squadra secondo le idee matematico-statistiche suggeritegli da un giovane neolaureato), i due riescono a mettere insieme una narrazione pulita e accattivante, che non si incarta mai su se stessa, che non cade mai nell'errore di essere troppo esplicita o sadicamente troppo criptica.
Tutto ciò che serve è lì, in termini di caratterizzazioni e rapporti dei personaggi, sviluppo della trama, gestione del ritmo e percorso narrativo.
Quando hai in mano una sceneggiatura del genere, è piuttosto difficile che il film possa uscirne male.

A trasporre in immagini le loro parole, troviamo un regista tutto sommato bravo, che opta per uno stile classico e posato, senza guizzi nè visivi nè immaginifici particolari.
Certamente gli va dato atto di riuscire a gestire correttamente il ritmo, riuscendo a far passare le 2 ore e 15 minuti di durata senza che le si percepisca.
Dall'altro lato, si può considerare che indubbiamente, mettendo in mano il tutto ad un regista più personale, che imponesse uno stile netto e distinguibile dalla massa, l'opera non avrebbe potuto che beneficiarne.

Senza dubbio un lavoro di mestiere quello di Bennet Miller, ma che non riesce a spiccare e a far fare al film quel salto di qualità che il lavoro di scrittura aveva abilmente preparato, seppur supportato dall'ottima fotografia di Wally Pfister, che gioca abilmente su spazi in luce ed in ombra per conferire dinamicità e tener viva l'attenzione visiva degli spettatori in ogni situazione.


I due protagonisti, Brad Pitt e Jonah Hill, sono entrambi molto efficaci, si vede che si trovano bene con il materiale che devono recitare, sono due ottime scelte di casting, entrambi fisicamente molto adatti al ruolo.
Entrambi si sono guadagnati una nomination all'oscar per le interpretazioni date in questo film.
Se per Pitt la nomina sembra adeguata (sebbene abbia fatto di meglio, anche solo quest'anno), per Hill appare un po' esagerata, dovuta soprattutto al buon apprezzamento che il film ha avuto negli USA piuttosto che ai reali meriti dell'attore, che pure, ripeto, da vita ad una prova di buon livello.

Sebbene classificabile entro i margini classici del film sportivo, qualche atipicità si fa notare; in primo luogo la scarsa quantità di scene di sport. Il baseball non viene mostrato molto spesso, il gioco è poco presente in scena, ma si svolge costantemente fuori campo, e ne vediamo soprattutto le conseguenze sulla vita dei personaggi. In questo senso è stato fatto un ottimo lavoro di parallelismo tra il pubblico e il personaggio di Pitt che, scaramanticamente, non guarda mai le partite, ma le ascolta o le vede alla televisione solo a tratti.
D'altro canto, le poche scene di sport presenti, sono girate in un modo estremamente classico, quasi non si volesse perdere tempo a mettere in scena qualche idea nuova: inquadrature sul tabellone del punteggio, primi  piani, ralenty e chi più ne ha più ne metta.


Altra atipicità è il posizionamento del "lieto fine": non è alla fine del film, ma a circa 30 minuti dalla stessa. Perchè per una volta si decide di raccontare una storia vera non tralasciando nulla, non arrestandosi laddove il pubblico si possa ritenere soddisfatto e commosso, concludendo in gloria, ma si va a sviluppare anche gli eventi successivi, che spesso, come in questo caso, non hanno su di sè impresso il marchio della gloria, ma quello della sconfitta.

Che poi la sconfitta non sia sempre da interpretare come tale, sta allo spettatore deciderlo, se questa squadra e la filosofia da essa messa in campo siano vincenti o perdenti, sta alla sensibilità di ciascuno.
Ed è questo su tutto a rendere quello che poteva essere un film classicissimo e stravisto un film nuovo e degno di essere guardato.

G.C.

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